Nono, parlo sul serio.
L’alienazione spesso ci (vi) ha fatto credere che trovare qualcuno con tante cose in comune fosse la chiave. Eppure no. Eppure quelle robe lì ci dicono meno di quel che si crede.
Videogiochi, film, viaggi, bricolage, sport sono passatempi con cui dovremmo dilettare il nostro Io, ma che non rappresentano un ponte verso l’altro. O, almeno, non necessariamente.
Non so cosa crei affinità tra due individui, ma senz’altro non il fatto che io e PincoPallo siamo follemente innamorati di Duncan di Dragon Age Origins.

Quest’uomo qui. EROE.
Qua il vero problema è che quello che diciamo, lo diciamo pure male.
Partiamo dai soliti discorsi generici: se nello scegliere le parole e nell’ascoltare quelle scelte dagli altri risiede il fulcro del nostro dialogare, anche i toni con cui queste parole vengono pronunciate sono importanti.
Più saremo rispettosi e specifici nelle nostre dichiarazioni – che siano domande, risposte o semplici pensieri cazzeggiatori – e più colmeremo il mondo reale ed il web di bei pensieri, di bei momenti e via dicendo.
Cercando sempre di fare slalom tra troll, stronzi e rompicoglioni.
Però, secondo me, nessuno capisce un cazzo di niente pure quando ci prova.
Prendiamo ad esempio i miei post preudo-depressivi: quando qualcuno decide di sorbirsi le mie paranoie mentali, subito coglie ben più di una sfumatura di tristezza. Cerca di consolarmi, di farmi sentire meno sola. Ed è una cosa bella, bellissima, grazie, grazie a tutti e saluto mia mamma e tutti quelli che mi conoscono, eh. Però io non sono depressa sé mi sento sola. Mi rileggo, allungo il muso e mi dico Ma io non vedo tutta questa depressione, qui sopra. Per me sono solo riflessiva, non triste, ma è chiaro che il mio modo di esprimermi rivela tutta una natura mogia che in effetti non esiste. Esiste il male di vivere, certo. Tuttavia è un male di vivere part-time.
Questo è solo un esempio. Quante volte interpretiamo male un gesto? E se il gesto non c’è, quanto è facile travisare il suono della voce? E quando manca pure quello, non siamo (siete) lì a trasalire leggendo, facendoci le seghe mentali anche solo per la punteggiatura?
Esiste solo la nostra testa, fuori non v’è certezza.
Per te invece quel punto lì dopo il ciao indica una chiusura. Che sia di stizza o d’ira, pur sempre chiusura.
Per altri è solo un punto. Perché alla fine ci va, nella lingua scritta si usa.
Tre considerazioni casuali, dettate da esperienza ed elucubrazioni più o meno sensate.
Ci si aggiusta il tiro, eh. Io ripeto le robe mille volte ed è difficile che perda la pazienza se non vengo capita o non capisco. Chiedo, richiedo, chiedo ancora. Prima o poi capisco.
Spiego, rispiego, spiego di nuovo. Prima o poi trovo la frase giusta.
L. è molto meno paziente, tende ad essere più tranciante.

E spesso non mi spiega un cazzo. O capisco o cazzi miei.
Ma analisi a parte, quello che è interessante è che la scelta delle sue parole a me provoca reazioni discutibili, come se scegliesse tutte quelle che per me hanno un’accezione negativa. Sono solo parole, però. Non hanno messaggi reconditi. Se non nel mio cervello.
Viceversa, tutte le mie parole sono insufficienti, pure se sono verbosa. Il mio messaggio non arriva o fatica ad arrivare e le mie parole si perdono nella traduzione.
Quell’intento di fondo non è sufficiente. Riflettevo su quanto è facile perdere la pazienza, essere drastici, tagliare possibilità. Quando invece sarebbe più utile soffermarsi sui propri modi, smussarli, a volte tagliarli con l’accetta e trovare una nuova strada.

invece di essere sempre precipitosi.
Però io lo trovo un esperimento di crescita interessante, per me. Che non implica il fingere di essere una persona che non sono, ma di trovare un modo nuovo. Smettere di dare per scontato che sasso significhi sasso. Perché a quanto pare non è così. Ho sempre pensato lo fosse e invece no.
Il tuo punto fermo non ne ha alcun motivo
Einstein che mi dice “cazzo fai, Francesco”
Provo, provo, provo e prima o poi ci riesco

Il poeta è questo qui.
Senza nemmeno l’aiuto di quei corsi audio da due mesi, come quello che ho usato per apprendere l’inglese.
Interessante.
E mena, eh, non è una pasta per signorine. Sei avvisato.
Tutti in cucina.
- 180 grammi di fusilli o altra pasta che ti pare;
- 100 grammi di ‘nduja;
- 200 grammi di ricotta;
- 40 grammi di parmigiano grattugiato;
- 10 grammi d’olio;
- una cipolla bianca;
- uno scalogno.
Metti l’acqua della pasta a bollire che si fa presto.
Trita cipolla e scalogno.
Grattugia a polvere il parmigiano.
In padella versa l’olio e fai stufare a fiamma bassa cipolla e scalogno.
Gira ogni tanto, non te ne dimenticare.
Quando tutto sarà morbidoso puoi aggiungere la ‘nduja.
Mentre si scioglie a fiamma bassa, metti la ricotta in una ciotola.
La ‘nduja avrà questo aspetto, intanto e quindi puoi calare la pasta perché ormai ci siamo:
Ora la prendi e la riversi nella ciotola con la ricotta ed aggiungi anche il parmigiano:
Mescola bene e metti il malloppone di nuovo in padella.
Ora: fiamma bassa, bagna questa roba con l’acqua calda. Non tanta, dobbiamo però renderla fluida. Come sempre: mezza mestolata alla volta è preferibile dal creare una minestra immonda che poi non si torna indietro.
Devi ottenere una roba del genere:
Ora spegni, in attesa della pasta che devi tirare fuori un minuto prima del tempo indicato sulla confezione e senza buttare la sua acqua (una cosa nuova, non la facciamo mai).
Caccia la pasta in padella, fai andare a fiamma super bassa, aggiungi acqua di cottura se la crema è poco fluida.
Alla fine in padella ci sarà questa roba qui, non molto diversa all’immagine precedente, ma te la metto uguale:
Prepara le porzioni e davanti a te ci sarà una roba del genere:
Pure la forchettata, per una volta che una foto viene decente:
Ciao e buon appetito!